Da dove proviene l’amore del cane per l’uomo? Il cane proviene dal lupo? Come sono andate le cose in realtà? E’ questa la domanda che si pone Dog is Love, il libro scritto da Clive Wynne psicologo della Arizona State University.

Per analizzare il rapporto tra cane e uomo occorre partire dalle origini, è questo ciò che ha fatto il NEW YORK TIME in un recente articolo da cui prendiamo spunto.
La tesi più diffusa è che, 15mila anni fa, alcuni branchi di lupi abbiano imparato a seguire gli spostamenti dei cacciatori umani per poi approfittare dei loro avanzi. Si può anche immaginare che gli umani abbiano gradualmente accettato la loro presenza nei dintorni, visto che i lupi potevano svolgere alla perfezione la funzione di antifurto, avvisando con i loro latrati se qualche estraneo si fosse avvicinato troppo.
Quando l’uomo ha iniziato a vivere in insediamenti permanenti e a dedicarsi all’agricoltura (durante la rivoluzione neolitica di circa 10mila anni fa), i lupi meno aggressivi hanno iniziato ad avvicinarsi sempre più all’uomo, evolvendo geneticamente, diventando cani e imparando a svolgere veri e propri lavori (com’è il caso dei cani pastore), assicurandosi così un riparo e del cibo.
Ci sono anche scienziati che mettono in dubbio che il cane discenda direttamente dal lupo (sostenendo che abbiano invece un antenato comune). La domanda da porsi, però, è un’altra: perché i cani hanno creato un rapporto affettivo così intenso con gli esseri umani, al punto da entrare nelle nostre case, dormire nelle cucce se non direttamente sul divano e ritrovarsi a passeggiare per i marciapiedi delle città con indosso dei cappottini rosa shocking?
Fino a oggi, come racconta il New York Times, la tesi generalmente accettata era quella riassunta dall’antropologo Brian Hare nel suo libro del 2013, The Genius of Dogs: i cani hanno un’incredibile capacità di comunicare con gli esseri umani. Una tesi dimostrata, tra le altre cose, attraverso un esperimento in cui Hare mostrava come i cani fossero nettamente più capaci di qualsiasi altro animale a seguire la direzione o l’oggetto indicato con le dita da una persona. Attraverso la loro convivenza, quindi, i cani avrebbero imparato a interagire con l’essere umano in modi sempre più sofisticati, creando così un rapporto speciale con noi.
Clive Wynne, nei primi anni 2000, cercò di confermare questa teoria facendo la stessa prova con altri animali. Poiché non aveva senso cercare di indicare qualcosa ad animali selvatici, si recò in una parco dell’Indiana in cui erano ospitati alcuni lupi cresciuti dall’uomo e quindi parzialmente socializzati. Eseguendo alcuni test, Wynne si rese conto che questi animali erano in grado di seguire le indicazioni dell’uomo altrettanto bene dei cani.
Per quanto le sue conclusioni non vennero considerate definitive dalla comunità scientifica (il dibattito è ancora in corso), Wynne iniziò a esplorare nuove strade per spiegare ciò che invece nessuno mette in dubbio: la superiore socialità dei cani rispetto a tutti gli altri canidi e non solo. Wynne mostrò per esempio come i cuccioli di cane diventino socievoli e si trovino a loro agio con gli esseri umani anche solo passando con loro 90 minuti al giorno per una settimana. Nel caso dei cuccioli di lupo, è invece necessario trascorrere con loro 24 ore al giorno per molte settimane, senza in ogni caso ottenere risultati neanche paragonabili a quelli dei cani.
Ovviamente, questo non vale per tutti i cani: avvicinarsi a un branco di cani randagi (e quindi inselvatichiti) è sicuramente pericoloso e anche alcuni domestici – soprattutto se traumatizzati per qualche ragione – non danno facilmente confidenza. In ogni caso, è innegabile che la maggior parte dei cani abbia un ottimo rapporto con l’uomo e tenda a interagire con lui in maniera amichevole.
A dimostrazione di tutto ciò non c’è solo l’osservazione diretta, ma anche alcuni studi scientifici approfonditi. Gregory Berns è un neuroscienziato della Emory University che ha usato la risonanza magnetica per provare a capire cosa avviene nel cervello dei cani nel momento in cui si rapportano all’uomo. Tra le altre cose, Berns ha scoperto che la parte del cervello dei cani che si attiva quando sentono la voce del loro padrone è la stessa che si attiva nell’uomo quando incontriamo qualcuno a cui siamo affezionati.
Nonostante ciò che si sente spesso dire agli stessi padroni (del tipo “per un biscotto il mio cane mi tradirebbe subito”), gli esperimenti di Berns hanno dimostrato che fare un complimento al proprio cane lo gratifica tanto quanto ricevere un hot dog, e che in molti casi i cani preferiscono il proprio padrone al cibo. Berns è quindi d’accordo con Clive Wynne nell’affermare che “è la ipersocialità dei cani a renderli speciali, non alcune particolari abilità cognitive”. Anche perché, spiega Berns, “è difficile dimostrare una qualsiasi abilità cognitiva in cui i cani siano superiori (ad altre specie di animali)”.
Ovviamente, un’affermazione di questo tipo va incontro a qualche problema: dove finiscono le abilità cognitive e iniziano quelle emozionali? Più importante di queste complesse e sottili distinzioni è però la scoperta della biologa Bridgette vonHoldt, che in alcuni test genetici ha individuato nei cani una forte presenza degli stessi geni che negli esseri umani sono associati con la sindrome di Williams-Beuren, una rara malattia che ha, tra i suoi sintomi, quella che viene definita una “indiscriminata amichevolezza” .
La forte presenza di alcuni geni che, nell’uomo, sono associati a questa malattia è una caratteristica peculiare dei cani, non riscontrabile per esempio nei lupi. E sono proprio questi geni che potrebbero spiegare la spiccata socialità dei cani. La ragione, come sempre in questi casi, è evolutiva: a partire dall’antichità, l’uomo ha iniziato a rapportarsi solo con i lupi (poi cani) più amichevoli e meno diffidenti, dando così vita a una selezione genetica che premiava chi aveva una maggiore predisposizione alla socialità. È ciò che Brian Hare ha chiamato “sopravvivenza dei più amichevoli”. Il risultato è che, oggi, il patrimonio genetico dei cani ha degli aspetti in comune con gli umani affetti da un disturbo che provoca un’amichevolezza eccessiva e illogica.
Per quanto altri scienziati abbiano affermato che la teoria genetica di vonHoldt abbia bisogno di ulteriori conferme, c’è un altro aspetto che sembra convalidarla: a quanto pare, i cani non sono sociali e amichevoli solo con l’essere umano. Lo sono nei confronti di qualunque specie animale con cui sviluppano fin da cuccioli un rapporto duraturo.
“Questo, ovviamente, non è stato testato con tutte le specie”, spiega ancora il NYT. “Ray Coppinger dell’Hampshire College ha però documentato come i cuccioli di alcune razze cresciuti con le pecore creassero legami affettivi con esse. Rimangono tutto il tempo con il gregge e vigilano costantemente su di esso. La stessa cosa avviene anche quando i cuccioli sono tenuti a contatto con le capre o anche con creature più improbabili, come i pinguini”.
Da questo punto di vista, la costante selezione dell’uomo, facilitando la riproduzione dei cani con una spiccata socialità, ha dato vita a una specie che, semplicemente, è in grado di affezionarsi a qualunque animale entri in contatto con loro fin da cuccioli e in maniera prolungata. “I cani hanno una disponibilità anormale a formare dei rapporti emotivi con praticamente qualunque cosa incroci il loro cammino”, spiega Clive Wynne. “E questo rapporto lo mantengono nel corso di tutta la vita. Più in generale, hanno una disponibilità e un interesse a interagire con gli estranei”.
Riassumendo, 15mila anni fa o anche più qualche tipo di lupo iniziò a relazionarsi a distanza con gli esseri umani. Quando durante il neolitico gli umani iniziarono a vivere in insediamenti permanenti e a darsi all’agricoltura, cominciarono anche a selezionare i lupi in base alla loro socialità e amichevolezza, dando il via alla graduale trasformazione in cane e allo sviluppo della differenza genetica individuata dai test.
A quanto pare, quindi, il segreto dei cani è uno solo: l’amore che sono in grado di provare nei confronti degli umani e non solo. Suonerà un po’ stucchevole, ma che possiamo farci: è la scienza che lo dice.
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